Il vino di Chio: storia di una contraffazione
I vini di Chio, piccola isola dell’Egeo orientale, facevano parte di quella ristretta elite di vini greci che erano considerati, sul ricco mercato di Marsiglia e successivamente di Roma, prodotti di lusso, paragonabili solo al mitico Falerno. Varrone li definiva “vini dei ricchi” e, come ricorda Plinio, Cesare li offrì al banchetto per celebrare il suo terzo consolato.
Come i vini di Lesbo Samos o di Thaso, quello di Chio era un vino dolce ed alcolico, unica garanzia per sopportare i trasporti via mare, ma aveva qualcosa che gli altri vini non avevano e che i produttori di Chio celavano gelosamente e che rendeva questo vino particolarmente aromatico e serbevole. L’isola di Chio era uno dei luoghi della Grecia dove cresceva una pianta, il terebinto, dalla quale si estrae una oleoresina usata per rendere impermeabile l’argilla delle anfore e che aveva anche un importante ruolo nella conservazione del vino.
Inoltre, a potenziare questo effetto antiossidante ed antisettico, la presenza nel vino del sale derivante dalla pratica dell’immersione per qualche giorno nel mare dell’uva chiusa in ceste, con lo scopo di togliere la pruina dalla buccia ed accelerare così l’appassimento al sole, preservando in questo modo l’aroma del vitigno.
Il commercio del vino di Chio
Gli abitanti di Chio erano così consapevoli della qualità del loro vino e così convinti di difenderne l’identità da chiedere a Prassitele, famoso scultore greco che per primo rappresentò il nudo femminile in una statua, di disegnare un'anfora da utilizzare per il commercio del loro vino.
Questa anfora si caratterizza per un corpo ovoide ma soprattutto per il collo tozzo e bombato. Oltre alla forma, che nel tempo subì alcune modifiche, le anfore erano riconoscibili per un timbro che rappresentava una sfinge, immagine che era anche riprodotta sulle monete dell’isola.
L’apparizione attorno al VII sec a.C. del vino di Chio sui mercati del Mediterraneo occidentale determina un profondo cambiamento nella domanda di vino: il vino etrusco che fino ad allora aveva monopolizzato il commercio del vino verso Marsiglia viene sostituito da quelli provenienti dalla Grecia orientale.
Come tutti i commercianti greci, anche quelli del vino di Chio fanno scalo, sulla via del ritorno in patria, all’isola d’Elba ed a Piombino per caricare materiali ferrosi da fondere o nell’isola d’Ischia o nella madre patria, venendo quindi a contatto con il mondo etrusco.
I ritrovamenti di anfore in relitti di navi affondate, nelle tombe o per costruire drenaggi testimoniano i luoghi di maggior frequentazione dei commercianti di Chio, identificati in molte città costiere della Sicilia, della Toscana etrusca e Marsiglia.
Il dinamismo mercantile spinse inoltre gli abitanti di Chio a portare il loro vino fino alle coste orientali del Mar Nero.
La contraffazione delle anfore e del vino di Chio
I frequenti ritrovamenti di anfore chiote hanno rappresentato per molto tempo degli indicatori efficaci dell’espansione commerciale greca nel Mediterraneo, ma hanno anche posto numerosi interrogativi agli archeologi relativamente alla loro numerosità nettamente sproporzionata alla esigua produzione di vino dell’isola, aspra e poco fertile. Inoltre in epoca ellenistica (II sec a.C.) compaiono forme di anfore di Chio a collo rettilineo e di colore rosso vinoso, molto diverse da quelle di epoca classica. Si fa quindi strada l’ipotesi dell’esistenza di un vasto fenomeno contraffattivo.
I dubbi relativi al riconoscimento delle anfore di Chio originali con quelle chiamate di imitazione vengono chiariti alla fine degli anni ’90 attraverso le analisi chimiche delle argille con le quali sono prodotte. Infatti le argille delle anfore provenienti da Chio sono molto più ricche di cadmio, un metallo cosiddetto pesante, di quelle prodotte altrove. Ma dove?
L’arcano viene chiarito quando si scopre che le altre anfore provengono quasi tutte da una zona a cavallo degli attuali confini tra Lazio e Toscana, in piena koinè etrusca, famosa per la presenza di numerose fornaci per anfore. Gli etruschi senza troppi scrupoli, in seguito alla flessione del commercio del loro vino verso la Francia a causa della migliore qualità dei vini greci, imitano le anfore di Chio e cercano anche di imitarne il contenuto.
Qualche anno fa, analizzando il DNA di un set di vitigni dell’Isola del Giglio e della Toscana tirrenica e confrontandoli con altri provenienti dal bacino del Mediterraneo, i ricercatori del DIPROVE dell’Università di Milano ebbero la sorpresa di trovare delle notevoli analogie genetiche tra il vitigno Ansonica-Inzolia e due vitigni provenienti dall’Egeo orientale, il Rhoditis ed il Sideritis, varietà caratterizzate da avere una buccia molto resistente ed una polpa croccante, molto adatte quindi alla manipolazione ed all’appassimento.
Quindi gli etruschi non avevano solo imitato le anfore ma anche importato i vitigni e forse la tecnica di appassimento e di vinificazione, come testimoniano le centinaia di palmenti dell’isola del Giglio, certamente uno dei luoghi deputati a produrre uva destinata a produrre vini dolci, date le sue caratteristiche climatiche.
Un altro aspetto interessante che collega il vino di Chio con quelli riprodotti sulla costa tirrenica è rappresentato dalla frequentazione dei naviganti eubei delle isole greche e dei porti del Mediterraneo occidentale. Dove questi esperti marinai–commercianti hanno lasciato tracce delle loro ceramiche, si ritrovano i vitigni che appartengono al gruppo numeroso dei Rhoditis.
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