DOC Orvieto: il riscatto di tremila anni di storia
Da l'Enologo - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
Orvieto è quella miniera di arte che dà il proprio nome – con quanto esso evoca – al vino. Per cui, fatalmente, ogni forma di comunicazione finisce per muovere da questo legame. Una sorta di ancestrale dipendenza che, trascurata per anni, è esplosa a tutto campo, grazie all’impegno e alle scelte del Consorzio.
E qui, a partire dal ‘78, l’Orvieto ha subito i sicuri effetti di una politica che, partendo dal controllo della produzione, si è via via estesa ai criteri di vinificazione. Il che vuol dire, da un lato, una progressiva riduzione del vino sfuso, e dall’altro una costante cura della qualità.
“Parliamo di un lungo processo che ha richiesto molto convincimento e tanta fede, visto che non ha mancato di avere – specie nei primi anni – pesanti conseguenze sulla modesta economia dei nostri viticoltori. Perché non va dimenticato che l’Umbria ha sempre avuto una serie di piccole aziende, dove anche la più ristretta flessione negli utili finiva per pesare sulla gestione di una famiglia…”.
Il revival, in chiave sociale dell’Orvieto, mi riporta d’incanto ai suoi trascorsi. Ovvero a quel vino - mortificato per anni da una produzione massiccia e approssimata - che ha saputo non solo uscire da queste secche, ma ritagliarsi un posto di tutto rispetto nel panorama della nostra enologia.
Con gli etruschi le prime cantine di Orvieto DOC
Perché l’Orvieto ha alle spalle secoli di storia. A partire dall’insediamento etrusco e dal paziente lavoro di scavo per ricavare le prime cantine, nel cuore della rupe tufacea. Tre profonde fosse, a precipizio.
La prima per pigiare l’uva, la seconda per accogliere il mosto attraverso apposite condotte di coccio, e l’ultima per la con conservazione e l’affinamento del vino. Che si produceva in notevole quantità, se è vero che gli Etruschi, vivaci mercanti, barattavano l’Orvieto fin sulle coste delle isole greche.
Ma le stagioni che vedranno il vino al centro dell’economia del territorio sono ancora da venire. Dopo l’assedio di Enrico IV, il Comune concede l’esenzione dalle tasse per chi impianta vigneti sulle colline dell’orvietano, e la Carta del Popolo prevede severe punizioni per chi danneggia le viti altrui. E ancora: sulla fine del Duecento, viene istituita addirittura la figura dei Custodi delle Vigne, a tutela degli impianti.
Siamo di fronte a interventi che se da un lato testimoniano quale peso abbia avuto il vigneto in queste terre, dall’altro hanno favorito una produzione spesso fuori controllo. E questo ad onta dei tanti riconoscimenti che pure sono stati tributati all’Orvieto. A cominciare dai papi, di volta in volta ospiti della città. Da Paolo III a Gregorio XVI, il quale volle che il suo corpo fosse lavato con l’Orvieto prima della sepoltura.
Orvieto DOC: un vino molto ricercato
Così, non è solo il prestigio e la notorietà ad accompagnare le fortune di questo vino. L’Orvieto ha goduto da sempre di una sicura quotazione di mercato, come provano i contratti per gli affreschi della cattedrale, ad opera di Luca Signorelli e del Pinturicchio. Il compenso è integrato da ben dodici some (mille litri) di Orvieto.
Ma che gusto aveva allora l’Orvieto? Era un vino abboccato, quasi dolce, una caratteristica dovuta alla bassa temperatura delle grotte, nelle quali veniva conservato. E tale è rimasto fino alla metà dell’Ottocento, quando si comincia a produrre un Orvieto Secco. La scelta è legata anche alla necessità di utilizzare al meglio quelle uve che – prive di una buona esposizione – presentavano un notevole grado di acidità.
È un vino che “viene a Roma per schiene di muli e per some”, in un’epoca in cui i vini erano distinti soltanto in cotti e crudi, bianchi e rossi. Spiccano già da allora la Malvasia, fra Amelia, Narni e Terni; mentre la Vernaccia e il Trebbiano hanno dimora fra Todi e Sangemini.
A contestare il primato dell’Orvieto sul territorio, è la larga presenza dei vini toscani, tenuti in particolare riguardo, ma allora non sempre meritevoli della loro fama. Eppure, anche se tra mille approssimazioni e senza troppe pretese, la Cantina Sociale - attiva fin dal ’49 - riusciva a trasformare in media trentamila quintali di vino.
Intanto l’Orvieto, già alla fine dell’Ottocento, si è ritagliato uno spicco di notorietà oltre la cerchia dei consumatori di “fogliette” e delle tante osterie disseminate lungo la via per Roma.
Pellegrino Artusi, nel suo celebre manuale, lo cita come “vino da pasteggiare più confacente agli stomachi deboli… ottimo per la piacevolezza al gusto, perché molto digeribile”.
Poi verrà la stagione che vede le vecchie viti maritate cedere il posto a vigneti specializzati, e le prime botti di rovere fare il loro ingresso nelle cantine. Ancora una volta i Colli di Orvieto sono fra le aree più avanzate, grazie anche al riscontro dei loro vini sui vari mercati.
Il nuovo Orvieto riceve a questo punto la sua consacrazione a Firenze e a Roma, nel 1860. È un banco di prova senza appello, ma la versione Secco lo supera a pieni voti. E oggi? Due le tipologie più accreditate. L’Orvieto Classico e quello Superiore. Il primo, a base di Grechetto, antico vitigno umbro, e di Procanico, un clone del Trebbiano toscano. Il secondo, che aggiunge al Grechetto uve di Canaiolo Bianco, Verdello (presente in minima parte anche nel Classico) e Trebbiano.
L’impegno per la qualità dell'Orvieto DOC
Il viaggio a ritroso sulle diverse fortune dell’Orvieto, si è rivelato un simpatico ping pong col presidente Cecci. Il quale, pur facendo sempre leva sulla storia per accreditare la nobiltà del vino, non ha mai smesso di sottolineare il costante obiettivo della qualità, intesa anzitutto come prova di dedizione e di orgoglio della gente umbra.
Poi, anche la nascita della Cantina Sociale, ha avuto il suo ruolo in questa grande svolta. Così per Cecci il Consorzio di Tutela ha potuto via via superare i propri confini istituzionali per aprirsi a iniziative del tutto impensabili un tempo. “Abbiamo provato a portare fuori dai nostri confini sia la città di Orvieto che il suo vino. E questo è stato possibile grazie alla crescente affermazione della Doc. Nel 2018 siamo passati a imbottigliare oltre 80mila ettolitri, su una produzione che si è attestata sui 93mila, con un incremento di oltre ventimila ettolitri rispetto all’annata precedente….”.
L'azione del consorzio
Le cifre si commentano da sole, ma l’azione del Consorzio va riconosciuta soprattutto per il costante impegno sul fronte della qualità. A partire dalla ricerca di un gruppo di giovani enologi, coordinato da Riccardo Cotarella e da Attilio Scienza. I lavori si sono svolti presso la Cantina Sperimentale, con i prof. Mencarelli e Bellincontro, del Dipartimento Di baf dell’Università della Tuscia.
L’obiettivo del progetto – spiega il Presidente Cecci – è lo studio del Trebbiano Biotipo T34, vitigno storico dell’Orvieto e di certo il più rappresentativo nell’uvaggio della Doc. Ma non è il solo traguardo. Perché la sperimentazione ha esaminato anche il comportamento dell’uvaggio dell’Orvieto nel processo di spumantizzazione Martinotti, a cominciare dalla basa resa delle uve in mosto (50%).
E non è finita. Perché Cecci ha ancora una carta da giocare. E per giunta di sicu effetto. Mi riferisco all’evento che si è tenuto nel mese di giugno, nello straordinario ambiente del Pozzo di San Patrizio, che ha ospitato la prima edizione di Benvenuto Orvieto diVino 2019.
In pratica, un luogo d’acqua, da sempre simbolo della città, ma anche metafora della discesa verso il cuore della Rupe. Così, lungo la spirale degli antichi scalini, disegnati dal San Gallo, oltre trenta cantine hanno offerto ai visitatori la possibilità di gustare il celebrato vino di Orvieto e di brindare con il nuovo spumante.
Un cin cin a quei tremila anni di storia, che non hanno cambiato l’immagine del Borgo di Orvieto. Cioè di quella Urbs vetus, ovvero città vecchia, che accoglie ed esalta tutto il suo passato, carico di quel vino di cui porta il nome.
Due terzi della produzione DOC umbra è di Orvieto
L’Orvieto, infatti, rappresenta i due terzi della produzione Doc dell’Umbria. Il Disciplinare, aggiornato di recente, indica nel Grechetto e nel Trebbiano le due componenti per un totale che non va oltre il 60% dell’uvaggio, dal quale nasce l’Orvieto e l’Orvieto classico.
Ben diverso è il blend per il Rosso Orvietano, che dal ’98 rappresenta l’alternativa per chi pur non amando i Bianchi, continua a privilegiare i vini del territorio. Così il Rosso Orvietano può essere la risposta giusta, anche se nasce da una tale folla di uve, che alla fine rischiano di mettere in difficoltà anche l’enologo più scaltrito.
Ma ritorniamo al Consorzio. La cui giurisdizione copre ben 18 comuni, di cui 13 nel ternano e cinque nella provincia di Viterbo. È un areale che si allunga per circa cinquanta chilometri, seguendo prima la valle del Ritorto e poi quelle del fiume Paglia e del Tevere. Un territorio il cui fascino è tutto nel sacro rispetto della campagna, che si apre di volta in volta a piccoli borghi stretti intorno al campanile della pieve. Perché è in queste stradine anguste e tortuose - fra scalinate audaci e faticose, nonché slarghi che si aprono come un fondale di palcoscenico – che vanno ricercate le origini dell’Orvieto.
La città, alta e superba sulla rupe tufacea, gli darà un’illustre paternità, ma è in questa sconcertante geografia che ritroviamo la millenaria storia dell’Orvieto. “Sì, è la campagna intorno il grande vivaio del nostro vino. Immaginarlo fuori da questo contesto, è un sacrilegio. Per secoli, quando l’economia delle famiglie contadine era ai limiti della sopravvivenza, qualche filare di viti era motivo di speranza. Le fortune dell’Orvieto, hanno alle spalle questi trascorsi, ed è bene non dimenticarlo….”.
Da l'Enologo - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
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