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Cucina tipica veneta, da scoprire rigorosamente in loco!

24 Agosto 2016
Cucina tipica veneta, da scoprire rigorosamente in loco!
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Spaghetti al nero di seppia? Bigoli? Risi e bisi? Sarde in saor? Tutti piatti di antica tradizione, ma tutti godibili solo entro i confini del Veneto. Alcuni sulla fascia costiera, altri su quella collinare. Perché a dispetto di un territorio fra i più celebrati - con record turistici da quindici milioni di presenze - la cucina veneta è rimasta ancorata alle sue radici. Vale a dire che è venuta a mancare prima un’incursione nelle regioni confinanti, e poi un’estensione all’intera penisola. Come invece è avvenuto per il risotto alla milanese, l’Amatriciana, la pizza. Così non resta che fare la valigia, se si ha voglia di fagioli con le lumache, di moleche (piccoli granchi verdi da friggere prima che la corazza diventi dura) o di risi e fegadini.

Perché si mangia veneto solo in Veneto?

Intanto, viene da chiedersi come mai in un’Italia dove le tagliatelle alla bolognese e il ragù napoletano sono arrivati a Cortina, e l’astice della Gallura è servito in Piemonte, la cucina veneta non sia stata esportata. E perché, di contro alla popolarità di cui gode, anche il baccalà alla vicentina non è andato oltre il territorio. A Roma o a Palermo è noto il nome, non la pietanza.

Eppure si tratta di piatti non solo di sicuro gusto, ma con un entroterra di storia e di leggende che ne accrescono l’interesse. E allora? Le ipotesi sono tante, e tutte variamente attendibili. Intanto, il diffuso frazionamento sotto le varie Signorie e prima ancora quello imposto dagli Ezzelino che ha sempre richiesto una politica difensiva, quantomai attenta a ogni rischioso sconfinamento. Una cautela del tutto estranea a Venezia, per la sua apertura e il ventaglio di traffici e di rapporti senza confini.

Vista del Lago di Garda
Vista del Lago di Garda

Ma la Serenissima, forte sul mare, ha bisogno di difesa nell’entroterra. Di quella corona di città fortificate (Marostica, Asolo, Montegnana, Este, Cittadella, Bassano del Grappa), che ha finito per dare vita a una circolazione chiusa, con limitate forme di scambio. Anche se poi qualche centro fortificato si è trasformato in un’eccezionale oasi di cultura per una ristretta cerchia di artisti e letterati. È il caso di Asolo con Caterina Cornaro, o di Arquà con Petrarca.

Eppure, anche in tempi a noi più vicini, a cominciare dall’Unità d’Italia, il Veneto ha continuato a non esportare i suoi prodotti, benché spesso celebrati dalla letteratura e dal cinema. Insomma, ha preferito ancora una volta giocare in casa, forte di quell’afflusso di turisti che la vede in testa ad ogni classifica. Un fenomeno che non coinvolge solo Venezia, ma l’intero circuito delle città d’arte, visto che Padova, Vicenza e Verona distano tutte circa un’ora dalla Laguna.

E gli chef veneti? A parte quelli dei più celebrati ristoranti di Venezia, molti lavorano presso grandi alberghi fuori dal territorio, dove a tenere banco, si sa, è la cucina internazionale. Così a superare i confini, ma senza particolare clamore, non è rimasto che il fegato alla veneziana, quello di vitello, cotto con cipolla appassita a fuoco lento e bagnato con vino bianco.

Dai piatti di mare a quelli della montagna

Sia ben chiaro. Per gustare la cucina veneta non basta un viaggio in Laguna. Bisogna che si compia un piccolo pellegrinaggio, che aggiunga ai piatti della costa quelli nati in collina o in montagna. Perché se la cucina di mare (a cominciare da Chioggia con i suoi “distinguo” con quella veneziana) ha una sua precisa fisionomia e piatti codificati, per quella di collina è quasi inevitabile il meticciato, e quindi la nascita di pietanze a mezza strada fra la civiltà contadina e quella marinara.

Mentre un carattere tutto suo, specie per la tipologia degli ingredienti, presenta quella di montagna. Insomma, per parlare di cucina veneta non si può prescindere dalla geografia del territorio e dall’influsso di Venezia, che - a partire dal riso alla polenta – segnerà non solo l’economia di alcune aree, ma il costume di vita degli abitanti.

risotto radicchio e gongorzola
In Veneto i risotti sono tipici della collina

I rapporti con l’Estremo Oriente e col mondo arabo (si pensi al caffè e alla lunga presenza di spezie) aprono nel Cinquecento la via al riso, destinato a rappresentare uno dei piatti di forza della cucina veneta. Ma il cereale per le sue lontane origini stenta a trovare posto sulle nostre tavole, mentre continua a trionfare nei grossi barattoli dei farmacisti, che lo consigliano ai malati di stomaco. Poi, lentamente e con mille riserve, sono nati i risi italiani. O meglio, quelli prodotti dall’incrocio di alcune varietà e destinati soprattutto ai risotti. È il caso dell’Arborio, del Carnaroli, del Vialone Nano, quest’ultimo coltivato nel basso Veronese e a ovest dell’Adige, protagonista indiscusso di una serie di abbinamenti (radicchio, piselli, asparagi, bruscandoli, funghi), che ne fanno la bandiera della gastronomia veneta.

Popolari almeno quanto il baccalà, i risotti sono presenti soprattutto in collina, dove non c’è trattoria o ristorante che non vanti una particolare perizia nella loro preparazione. Per il baccalà, invece, va sgombrata la via dall’uso improprio del nome. Quello cosiddetto “alla vicentina”, è stoccafisso (cioè merluzzo essiccato al vento e assolutamente privo di sale, elemento invece con cui viene trattato il baccalà) e va cotto con il latte.

Resta, a questo punto, la montagna. Che a tener conto dei caratteri del territorio veneto, non è parte trascurabile, visto che ospita un bel po’ di Alpi. E montagna, a partire dal Cinquecento, vuol dire anzitutto polenta, che se non è un monopolio, vanta qui la sua primogenitura. Anch’essa piuttosto combattuta, in verità, non diversamente dal riso in pianura, e non solo in terra veneta. Si pensi che il mais troverà spazio in Lombardia un secolo dopo, quando agli effetti devastanti della peste seguirà una pesante carestia.

Ma quale polenta preferiscono i veneti? La gialla o la bianca? Anche in questo caso, la scelta è per così dire geografica. Per cui la bianca, tipica del Polesine, è più diffusa fra Padova e Venezia, mentre la gialla, più contadina, continua ad accompagnare le pietanze meno delicate.

Articolo tratto da l'Enologo – n°6 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani

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